domenica 10 marzo 2019

La vera storia del compagno Vasilij Gregorij

Non scrivo su questo blog da quasi sei anni. Sarà che in questi anni di cose da dire me ne sono rimaste poche. 
Però avevo bisogno di un posto dove pubblicare questa storia, un posto che non fosse un social. Ho anche pensato di chiedere a più persone di ospitare la mia storia sul loro blog, ma alla fine ho deciso che essendo una storia mia avesse più senso pubblicarla qui. 


devitalizart omaggia il Compagno Vasilij Gregorij

 La vera storia del Compagno Vasilij Gregorij. 



La verità è che io questa storia l'ho già scritta qualche settimana fa presa dall'impeto dell'emozione.
Questa storia l'ho buttata giù di un fiato, lasciando che le emozioni annebbiassero la mia grammatica e la forma verbale. Questo perché in effetti resta una delle storie più emozionanti che io abbia vissuto (e che continuo a rivivere ogni volta che mi ci cade il pensiero). 
Io, al fatto di aver ritrovato il Compagno Vasilij Gregorij vivo e dopo più di due anni, ancora faccio fatica a crederci. 

Il Compagno Vasilij Gregorij, a dispetto del nome, non è un signore rubicondo di origini russe, ma un calopsite dalle guance rosse e dal fischio melodioso. 
Vasilij è il miglior amico di mio padre, è il pappagallo di papà e come lui fischia Bandiera Rossa e come lui fischia Ammazza la Vecchia col filck e, sempre come lui, ha un fischio inconfondibile per chiamarti quando vuole attenzione. 
In principio il pennuto si chiamava Loreto (ma forse l'ironia di questo nome la colgo solo io) e apparteneva a un vicino di casa di mio padre, sono buoni vicini tra di loro, nonostante abbiano delle idee sul mondo piuttosto differenti. 
Nell'estate di qualche anno fa il Signor M. (lo chiamo così, a caso, perché ammetto di non ricordarmi il suo nome ma solo la sua professione) deve partire per una lunga vacanza e ha preso da poco questo pappagallo dalle guance rosse, così chiede gentilmente a mio padre se può averne cura mentre lui è via e glielo affida. Credo che gli abbia detto anche qualcosa sul fatto che questi pappagalli imparano a memoria delle canzoni. Non saprei. Magari la mia è finzione. 
Fatto sta che mio padre se ne prende cura e, bonariamente, inizia ad addestrare il pappagallo a fischiare Bandiera Rossa. L'idea è semplicemente quella di fare uno scherzo bonario al vicino, una cosa per ridere sotto i baffi. Una roba da vecchi sessantottini che hanno sotterrato l'ascia di guerra, è vero, ma che mantengono un certo stile. 
A questo proposito, papà, te lo devo dire: più che Comunista sei stato un grande Situazionista. Una roba da rendere felice Debord (e ora rido sotto i baffi, che non ho).
Il signor M. rientra dalle vacanze, ringrazia mio padre, si riprende Loreto e lo porta a casa.
La mattina dopo suona a mio padre di buon'ora e gli regala definitivamente il pappagallo perché «Questa roba davvero non si può sentire». 
È così che papà e il Compagno Vasilij Gregorij sono diventati amici, mi piace pensare che un po' si siano scelti. 

Negli anni mio padre ha allevato a mano il piccolo pappagallo, insegnandogli a non beccarlo e a stargli sulla spalla a fischiettare insieme. 
Non era insolito, quando andavo a trovarlo, vedere mio padre intento a cucinare allegramente con il suo pappagallo sulla spalla che, appena mio padre attaccava con Bandiera Rossa si univa e completava le strofe. Addirittura quando sbagliava tornava indietro e ricominciava dal punto in cui si era reso conto di aver sbagliato. 
Quella che era stata la canzone della mia infanzia, cantata in macchina andando al mare a pescare nelle domeniche con il mio papà, era diventata la canzone che sentivo ogni mattina presto quando dormivo da lui, quella canzone che accompagnava papà dietro ai fornelli. 

Sembrerà sciocco ma mio padre non è mai stato un grande amante degli animali, a meno che non siano cavalli (anche se tenere un cavallo in casa è una cosa un filo complicata) e io mi emozionavo sempre davanti a questi quadretti. 
Ho avuto anni a disposizione per poter fare un video di queste scene... eppure non l'ho mai fatto. 
Me ne sono pentita amaramente perché, circa due anni fa, il Compagno Vasilij Gregorij, in reazione ad un attentato compiuto da un gatto, è fuggito via.
Mio padre lo ha cercato per giorni interi in tutto il circondario, andava in giro chiamandolo con il suo fischio inconfondibile, fischiava Bandiera Rossa per strada sperando in una risposta. 
Affranto, dopo giorni e giorni di ricerche lo ha dato per morto e ha iniziato a odiare ogni gatto sul Pianeta Terra. Tanto che quando mi venne a trovare e vide i cuccioli che avevamo appena adottato con il mio compagno disse che erano carini ma li odiava, in quanto gatti. 

Per mesi ho cercato di informarmi per trovare un calopsite allevato a mano da regalare a mio padre per colmare il suo dispiacere. Alla fine ho desistito anche perché mio padre non voleva un altro pappagallo, a lui mancava il Compagno Vasilij. 
Io non so più a quante persone, negli anni, ho raccontato la storia del pappagallo di papà (che non ha mai voluto imparare a fischiare L'Internazionale, per giunta), di questo pennuto comunista che viveva con lui. A qualcuno temo di averla raccontata decine di volte, come i vecchi arteriosclerotici, lo ammetto. 
disappunto per il Compagno Vasilij 

Qualche settimana fa, come spesso mi accade, non riuscivo a prendere sonno, quindi sono a letto con la luce spenta, è l'una di notte e sto assolutamente perdendo tempo su facebook sperando che gli occhi mi si facciano pesanti e che il mio cervello si degni di spegnersi. 
Un amico mio pubblica questa notizia di un certo pappagallo partigiano, conosciuto come Cipolla, che si era perso ed era stato ritrovato perché fischia Bandiera Rossa.
In un impeto, prima di aprire l'articolo, gli commento «Oh ma lo sai che pure mio padre ne aveva uno a cui aveva insegnato la stessa canzone?», che ridere, ma mi bastano poche righe di quell'articolo per capire che sì, quello non era un anonimo Cipolla, quello era davvero il disperso Compagno Vasilij Gregorij.  
Oh, non avete idea di come abbia reagito il mio cuore appena ho avuto quella consapevolezza. Non ci potevo credere, mi stava scoppiando nelle orecchie! Se non fossero state le due di notte avrei tirato giù dal letto mio padre per urlargli al telefono che lo avevo ritrovato, avevo ritrovato Vasilij! 

Non chiudo occhio per tutta la notte e mi chiedo come posso rintracciare la famiglia che l'ha trovato per raccontare loro la sua storia, per riprenderlo... non posso crederci, Vasilij tornerà a casa... e questa volta non perderò l'occasione di registrare questo ricordo e in più, in un periodo complesso come questo, so che mio padre avrà una nuova cosa per essere di nuovo felice.

L'indomani mio padre mi dice di essere già riuscito a contattare la signora che lo ha trovato, ha la certezza che sia lui. È davvero lui! Entrambi conveniamo sul fatto che sia un'emozione incredibile averlo ritrovato. Qualcosa di meraviglioso e davvero inaspettato e poi... il modo in cui è successo! Sembra di essere i protagonisti di una meravigliosa leggenda metropolitana! Io non vedo l'ora di un lieto fine.
Ma la verità è che le storie immense e meravigliose spesso si rivelano nobili ma amare. 
Perché mio padre, quando ha chiamato la signora Michela, era davvero intenzionato a riprendere Vasilij, era pronto a coprire di doni e affetto perenne questa signora per averlo salvato, accudito, ritrovato ma... davanti alla commozione di lei al pensiero di separarsene ha fatto un passo indietro. 
Così come nella storia di Re Salomone e del figlio conteso, lui ha deciso di rinunciare al suo amico per le penne pur di non arrecare dolore ad altri. 
La mia prima reazione è stata di sgomento, non ci potevo credere... ma veramente? La seconda è stata di rinnovata stima e di amore infinito per mio padre, per questo gesto che può sembrare piccolo ma a me sembra immenso. 
Poi se ne sono alternate parecchie di reazioni in queste settimane. 
Ogni volta che qualcuno mi scriveva per conoscere la storia di Vasilij io la raccontavo, ogni volta che qualcuno mi augurava di riportarlo a casa io rispondevo che il Compagno sarebbe rimasto con la sua nuova famiglia. Ho risposto ad ogni articolo e screenshot che mi sono stati mandati ovunque su questa storia. Ho risposto ad ogni messaggio su ogni social. 

Il problema è che la storia del Compagno Vasilij Gregorij (a cui la signora Michela ha immediatamente restituito il nome completo dopo esserne venuta a conoscenza) mi turba così tanto da averlo sognato già un paio di volte mentre fischietta sulla spalla di mio padre. 
In ogni caso questa notizia è arrivata persino ai maggiori quotidiani nazionali (come La Stampa, Il Corriere della Sera, La Repubblica e altri ancora) ma nessuno, fino ad adesso, ha raccontato qual è la Vera Storia del Compagno Vasilij Gregorij. Ho voluto provarci io. 


una scultura in origami in onore del Compagno Vasilij

giovedì 11 luglio 2013

Questa è una stupida lettera d'amore.

Ciao mia Affezionata86xx.
Questa è una mia lettera d'amore per te e volevo scriverla proprio oggi, nonostante questa spalla mi stia dando ancora fastidio e nonostante ultimamente io sia un po' a corto di parole.
Volevo scrivertela oggi perché è il tuo compleanno, e volevo scriverla pubblicamente solo per il gusto di metterti un po' in imbarazzo. Lo sai che sono una brutta persona.
In realtà credo di averla voluta scrivere molte volte, ma non trovavo mai una scusa per farlo.
Cioè di scuse ne avevo a decine, ma nessuna di queste mi bastava.
Allora lo faccio oggi perché ricorre in nostro "anniversario". Perché sono passati nove anni da quando ci incontrammo appena maggiorenni a lavorare in un festival qui a Genova. Perché in questi nove anni il tuo numero è rimasto salvato nel mio telefono portando come suffisso le prime tre lettere del nome di quel festival e nonostante io abbia cambiato tre volte numero di telefono (e una decina di sim diverse) ogni volta ho salvato il tuo numero in quel modo.

Oggi mi sembrava il giorno giusto, perché ho scritto e cancellato parecchie volte un'altra lettera che in realtà ha a che fare con la fine di un amore anche se, alla fine, credo di non dover usare quelle parole, preferisco usare queste.

Ho fatto un lunghissimo cappello temporeggiando e senza arrivare al dunque. È come se avessi camminato in tondo per la stanza per tutte le prime quindici righe.
Arrivo al dunque.

Volevo dirti che ti voglio bene. Anche se te l'ho detto molte volte. Però oggi volevo dirtelo in modo un po' più eclatante (come se un post del blog potesse esserlo).
E poi ringraziarti perché in queste settimane ci sei stata e sei stata una presenza bellissima e preziosa. Perché senza la tua pazienza e la tua solidarietà quando mi sono fatta male avrei fatto molta più fatica a fare molte cose.
Perché in tutti questi anni senza la tua leggerezza sarei diventata di piombo e mi sarei ritrovata con un cuore a forma di proiettile e invece - anche se faccio finta di non averlo - è rimasto della forma e del materiale giusto.

Volevo ringraziarti delle nostre sere a Nervi a fare le sedicenni sullo scoglio più nascosto possibile.
Delle volte in cui mi hai trascinata alle odiose feste raggae e mi hai riportata illesa a casa mentre brontolavo in motorino e mi addormentavo sulla via del ritorno dal Monte Fasce.
Di esserti accollata quasi ogni trasloco che ho fatto.
Di avermi lasciato cambiare senza mai rinfacciarmi com'ero prima.
Di aver scavalcato insieme il cancello per quel concerto e di esserti nascosta con me mentre ci inseguivano inferociti.
Di aver sopportato buona parte delle mie lune storte.
Di non esserti persa anche quando la tua vita ti portava a sederti in riva a un altro mare.
Di leggere ogni volta le pagine di questo blog.
Di aver studiato con me - e ben più di me -  quando abbiamo dato la maturità insieme.
Di aver condiviso decine di volte le mie parole, perfino nei testi che hai preparato per i tuoi esami all'università.
Di avermi perdonato se sono riuscita a farmi male 5 giorni prima della tua laurea (e di non esser riuscita a finire di correggere il tuo riassunto).
Volevo ringraziarti per le foto stupide che mi strappano un sorriso quando sono triste.
Delle tue faccette.





 
E poi volevo ringraziarti esser stata la prima persona che ho fotografato (quando ancora non sapevo come si tenesse in mano una macchina fotografica), di essermi venuta a prendere sui nostri scogli con delle birrette decine di volte, di portarmi al mare ogni estate, delle nostre giornate a Pisa, di perdonarmi se non ho più molti racconti ma solo aneddoti, per avermi portato la pizza e una bottiglia di vino il giorno del mio compleanno e di troppe altre cose che mi ci vorrebbe un libro per metterle tutte insieme.

Insomma è una stupida lettera d'amore, per dirti che averti come amica migliora tante delle mie giornate e che ti voglio bene. E sì, in realtà era il mio modo pomposo di augurarti buon compleanno, Giulia.


mercoledì 22 maggio 2013

Non eravamo pronti.

Oggi si è spento Don Andrea Gallo.

È una fucilata al cuore per tanti e tante di noi. Lo è per tutte le persone che in questa città l'hanno incontrato decine, centinaia di volte. Per chi l'ha ascoltato. Per chi l'ha abbracciato.
Lo è per tutti quei miei amici e quelle mie amiche che ho visto entrare con gli occhi spenti nella sua comunità, senza nessuna speranza in tasca e poi uscirne con una vita nuova. Con il coraggio di andare avanti.

Sono un'atea convinta. Non ho bisogno di una fede o di un dio qualsiasi per trovare la forza dentro di me ogni giorno. Il coraggio lo trovo nelle cose, nei miei amici, nella mia famiglia di nascita, in tutte le mie famiglie addottive.

È da quando ho 7 anni che mi dico che Dio in realtà non esiste. In nessuna forma. Esistono gli uomini, le donne e un mondo che è molto lontano dall'essere uno dei migliori mondi possibili.
Esiste un mondo con regole e preconcetti che non condivido, con meccanismi malati, con incubi nascosti in ogni angolo di strada.
Esiste questo mondo.
Ed esistono nello stesso momento persone che invece creano delle isole felici.
Persone che dedicano la loro vita a creare dei punti saldi nelle comunità e che il marcio lo combattono con coerenza ogni giorno.

Don Andrea Gallo era una di queste - troppo rare - persone. Vestiva l'abito di un prete e aveva un animo anarchico.
Vestiva l'abito di un prete e non ha mai escluso nessuno, non ha mai allontanato da sé gli atei, gli anarchici, gli scappati di casa, gli ultimi della lista e i primi guerrieri con i paraocchi.

Se la "religione" è un veleno lo è soprattutto per i paraocchi che mette alle persone, per le vie strette in cui le instrada, così come lo sono tutte le cose che richiedono "fede", come il dover essere duri e puri e troppo anarchici per amare un prete. 

Non ho avuto bisogno del suo dio per uscire dalla mia di melma, non ho visto uscire i miei amici dalla sua comunità con occhi nuovi perché avevano trovato la fede. Avevano trovato una nuova forza di vivere. Che lui fosse un vero cristiano come dicono alcuni e che fosse un buon prete come dicono altri, non mi ha mai impedito di amarlo, di averne rispetto e stima.
E ora non mi impedisce di piangerlo.

Non piango un prete.
Piango un uomo, un compagno, una persona che a me tante volte ha dato speranza, non fede.

Che la terra ti sia lieve. Che le tue parole riecheggino ancora a lungo come un colpo di gong in noi. Che il mondo ci perdoni perché non siamo ancora pronti a fare a meno di uomini come te.




giovedì 11 aprile 2013

Badroom*

Foto orribile fatta con il cellulare.

C'è un cassetto. Uno solo su sei (e uno anche piccolo a dire il vero) che contiene le mie magliette non nere. Poi ci sono tre cassetti dedicati alle magliette nere: quello delle t-shirt da combattimento, quello delle magliette di rappresentanza, quello delle magliette che vanno dalle mezze maniche fino alle maniche lunghe.
I calzini, rigorosamente in ordine di lunghezza.
La biancheria, divisa per colori, gradazioni, ordine. Tre quarti del cassetto è nero. Il resto una cupa accozzaglia di colori scuri.

I libri. In ordine di concetto, di editore, di autore, di idea. Quelli di cui ho più bisogno a portata di mano. Perché possono salvarmi una notte insonne o solo togliermi un dubbio prima di una lezione.

I fogli ovunque, scarabocchi di idee di storie, segni a caso buttati al telefono, appunti di viaggio, frasi buttate al vento che da sole non significano niente.

Le valigie. Di tutti i formati e le misure. Di tutte le capienze possibili per ogni tipo di viaggio.
Una dentro l'altra nell'angolo tra il cassettone e il comodino.

Le scatole dei cavi del computer.
Le scatole dei cavi elettrici.
Le scatole del materiale fotografico.
La scatola di latta sul comodino accanto al letto.

Tutte le cose che riguardano Il paese delle Meraviglie.
I barattoli di china.
I pastelli colorati.
Il barattolo che contiene i pantoni in tutte le scale di grigio possibile.
Le matite per disegnare, e gomme, cancellini, temperini, penne e pennarelli.

I trucchi, le medicine, le analisi mediche, le ricette di quelle analisi che non hai mai fatto perché non le vuoi fare.

Le scarpe.

Ho svuotato tutto. E l'ho rimesso in ordine.
Ho tolto tutto da dove stava, l'ho pulito, coccolato e rimesso a posto.
Ho svuotato i cassetti, ho preso i vestiti uno a uno e li ho piegati di nuovo.
Ho tolto i libri sbagliati dalle mensole, ho rimesso a posto quelli che non erano dove dovevano stare.

Ho preso tutti i biglietti che mi erano sfuggiti alla prima "perquisizione" della mia stanza mesi fa. Tutte le cose che avevi nascosto in giro e che ho ritrovato solo adesso. Le ho prese e messe a posto, in quella scatola di latta che sta accanto al letto.

Ora spero che l'ispirazione mi torni.
Che io smetta di pensare ai tuoi occhiali sporchi di colore.
Alle braccia sporche di colore.
Al colore rimasto impigliato dietro le orecchie.
A tutte le storie che mi hai rubato e a quelle che mi sono marcite dentro in questi mesi.

Per me, ora, la primavera può finalmente arrivare.
Le storie possono tornare da me.
Il momento di crisi... finire.
(E io posso smettere di sforare le deadline perché ho la testa altrove).

*ovviamente vuole essere un gioco di parole, non un refuso. 

giovedì 28 marzo 2013

Del dolore, della distorsione e della detrazione.

Avevo 11 anni quando per la prima volta la morte mi diede uno schiaffo in faccia.
Avevo 11 anni e avevo appena perso il mio amico di infanzia, schiacciato da un cancello.
Fu la prima volta che mi resi conto che la morte non era riservata solo ai vecchi e ai grandi.
Si era presa un mio amico, se l'era portato via in modo definitivo.
All'epoca sognavo ancora di fare la scrittrice da grande, sognavo di giocare a calcio meglio dei miei amici e meglio di quell'amico mio lì, con il quale il rapporto era iniziato all'età di 7 anni picchiandoci come due scaricatori di porto sui colli.
Ero una testa di cazzo di quelle con la coccarda e il numeretto da gara già quando stavo sotto il metro di altezza (non che ora io sia poi così alta).

Lo scoprii per caso, cercando la rubrica in casa per chiamarlo per gli auguri di compleanno. Lo scoprii dalla faccia di mia madre, che mi fece sedere sul letto e mi disse "Diego ha avuto un incidente".
Al primo colpo pensai che si fosse rotto un braccio, una gamba. Non capivo. Non realizzavo.

L'articolo di giornale che uscì il giorno dopo l'ho conservato per molti anni.
La foto di Patrizia, la madre di Diego che piange al suo funerale potrei disegnarla senza averla davanti.

Avevo 11 anni la prima volta che ho realizzato che non esiste dolore peggiore per una madre che seppellire i propri figli.
Avevo 11 anni la prima volta che si è rotta l'illusione in me, sentivo quella perdita come un'ingiustizia feroce, come un errore nel naturale ordine delle cose. Nonostante quello di Diego non fosse altro che uno stupido maledetto incidente dovuto alla noncuranza dei grandi.
Ed ero bambina. Avevo l'età che ha mia sorella adesso.
E spero con tutto il cuore che a lei questo morso della vita arrivi il più tardi possibile.

Recentemente mi hanno detto che dovrei avere molto più pelo sullo stomaco. Non riferito a queste questioni ma ad altre.
Ne ho parecchio di pelo sullo stomaco. Ho la pelliccia di un orso sullo stomaco. Non è la pancia a essere colpita, è quella cazzo di rotula che mi porto al posto del cuore.

Ogni volta che sento di una madre che seppellisce i figli i mi ricordo di quella storia. Mi ricordo della foto della madre di Diego il giorno del suo funerale. Mi ricordo dei suoi fratelli.

Immagine tratta dalla copertina del libro ZONA DEL SILENZIO di Checchino Antonini e Alessio Spataro.

Nel settembre del 2005, alla veneranda età di 20 anni, collaboravo con la segreteria legale del GLF ai processi contro le Forze dell'Ordine per i fatti del g8. Ero parte di un collettivo (che esiste tutt'ora) chiamato Supporto Legale, un gruppo di persone che a costo di incubi costanti infilava le braccia nella merda delle storie per sbrogliare la matassa. E che se non credeva del tutto nel concetto di Verità e Giustizia nelle aule di Tribunale, credeva fermamente nel fatto che la Memoria è un ingranaggio collettivo.
La storia della morte di Federico Aldrovandi ci arrivò subito, ci arrivò con una richiesta della madre di non far passare sotto silenzio quella storia che fin da subito risultava agghiacciante.

In Italia abbiamo qualche problema con i concetti di democrazia e di giustizia. Qualche problema è un eufemismo. Direi che abbiamo un problema grave con le Forze dell'Ordine, con i valori democratici, con il rispetto della Costituzione da parte di politici e da parte delle stesse Forze dell'Ordine.
Siamo il paese dove i fatti (e i processi ad essi connessi) della scuola Diaz e della caserma di Bolzaneto hanno mostrato quanto i comportamenti feroci, illeciti e contrari a ogni principio umano e legale siano diffusi e accettati. Dove mentire per spirito di corpo è accettato, perché vanno difese le azioni delle Forze dell'Ordine.
È una cosa che tutti, dai politici ai semplici cittadini che hanno voglia di indignarsi nei tempi dispari continuano a ignorare. O a far finta di farlo.
In questo paese la ferocia delle alte cariche e la vergogna di chi detiene il potere non è riferita al fatto che ammazzare di botte un ragazzino di 18 anni, sparare dei colpi in aria in autostrada, stuprare le detenute, o abusare del proprio potere sia una cosa vergognosa. Ci si inferocisce e si alzano i toni se si viene perseguiti per questo.
Perché la nostra giustizia ha EVIDENTEMENTE due pesi e due misure.
Non prendiamoci in giro.

Quello che è accaduto ieri a Ferrara è uno schiaffo alla dignità di una madre che ha perso un figlio nel modo peggiore che le potesse capitare.
A tutte le madri che in questo paese (non solo quelle dei casi eclatanti o che hanno avuto il coraggio di mettere in piazza il loro dolore) piangono per aver seppellito i propri figli.
È un cancrena che dilaga. Una malattia del nostro paese.
La putrefazione del bene sociale, dell'equilibrio.
È il potere della distorsione dei fatti, quella moda orrenda che abbiamo di stravolgere continuamente le storie, come quando si parla di fantomatici sassi che deviano proiettili o di malori attivi.

Siamo un paese dove chi rompe una vetrina paga con dieci anni di carcere, dove la frase ho solo eseguito degli ordini continua ad essere una buona giustificazione per gli atti immondi compiuti da chi indossa una divisa.
Sarò strana io, ma come diceva la nonna di una mia carissima amica, non riesco a fidarmi di chi - per lavoro - dorme con una pistola accanto al cuscino.
Il mio divario culturale ed etico con queste tipologie di persone è così ampio da scavare un abisso.

Il COISP non è nuovo a queste iniziative orrende, ogni anno il 20 luglio ha il coraggio chiedere il permesso di scendere in piazza a Genova, di indire un Sit-In in solidarietà a coloro che sono i primi fautori di quello che Amnesty ha definito la più grave sospensione dei diritti umani in occidente dopo la seconda guerra mondiale.
Ieri a Ferrara ha avuto addirittura il coraggio di allontanare in malo modo il sindaco della città che era sceso a chiedere di spostarsi.
Ha indetto un sit-in in solidarietà di quattro assassini che, nonostante io trovi che la galera non vada bene nemmeno per i secondini, non sconteranno davvero la pena che la "società" ha chiesto loro di pagare.

A quanto pare la verità costa troppo cara.
A quanto pare in questo paese funziona così.
Funziona che una madre, a otto anni dall'omicidio del figlio, debba ancora scendere in piazza portando con sé la foto di un ragazzo dilaniato dalle percosse. In Italia funziona che una madre, dopo che ha seppellito suo figlio debba vedersi insultare e oltraggiare continuamente dagli autori di un reato infame.
Come se non bastasse quel carico di dolore che si porta appresso. Come se non bastasse la distorsione dei fatti smontata da più e più sentenze, come se non bastasse la detrazione costante a cui viene sottoposta da anni.

Non sono indignata per quel che è accaduto ieri a Ferrara.
Sono inferocita.